Stress, tic e incontri fortuiti: viaggio nelle mille vite dei pendolari
Lo scrittore svedese Bjorn Larsson ha scritto per Iperborea “Filosofia minima del pendolare”, un gustoso saggio sui tic di chi viaggia spesso per lavoro. Compreso lui. Noi lo abbiamo incontrato. Dove? A Roma, al Festival della Letteratura di viaggio. Ecco il dialogo (surreale) che ne è derivato
Pendolari, rei confessi. Io e lui, qualcosa di ancestralmente iscritto nel Dna forse. Non poteva, l’incontro, che consumarsi al Festival della Letteratura di Viaggio, a Roma: c’è chi racconta di mete remote e chi di straordinari reportage, lui pone l’accento sugli spostamenti all’apparenza meno significativi, perché quotidiani e routinari, si direbbe anche prevedibilmente monotoni. Lo direbbe, più che altro, chi non ne abbia una profonda contezza: ogni viaggio, anche quello del pendolare, è in potenza crocevia di incontri, sguardo sul mondo che cambia e, in fondo, inno alla resilienza, talvolta alla sopportazione. Ecco perché Björn Larsson ci cattura subito. La premessa è il suo libro, “Filosofia minima del pendolare”, una delle perle di Iperborea: leggerlo aiuta a comprendere il mondo, più o meno meraviglioso, dei pendolarismi.

Così, ci dichiariamo subito pendolari: non vorremmo esser presi per voyeuristi del genere, abbiamo piuttosto una crescente esperienza in merito, amplificata forse dalla difficoltà intrinseca degli spostamenti, da un’isola alla terraferma, tutti i giorni o quasi. Björn è affabile e gentile: questo libro, un saggio antropologico delizioso, l’ha scritto perché ha alle spalle un’esistenza nomade e vagabonda a bordo di una barca, ma anche – ammette candidamente - quarant’anni di sfiancante pendolarismo. Si definisce “pendolare incallito tra Danimarca, Svezia e Italia per lavoro e per amore”. E allora gli è accaduto - durante i suoi numerosi viaggi – in traghetto, treno, bus e qualche aereo – e migliaia di chilometri – di osservare le abitudini e le nevrosi dei pendolari, incluso sé stesso naturalmente. Cita miti letterari come Martinson e De Beauvoir, Orwell e Beckett, lancia messaggi non troppo cifrati al capitalismo e riflette – diremmo immancabilmente -sull’isolamento durante la pandemia, che ha toccato profondamente chi, come lui, trova nel viaggio una ragione di vita. Ma tutto è tornato come prima, per fortuna.
E allora partiamo dall’idea: perché un libro sui pendolari?
“Credo che ogni libro sia, in fondo, una profezia. Per deformazione professionale osservo il mondo che mi circonda, prendendo appunti. Da pendolare, l’ho così fatto per anni riempiendo blocknotes di suggestioni. Eccola, la profezia: con la pandemia ci siamo accorti che il pendolarismo era ed è soprattutto un fenomeno di massa, e dunque abbiamo dovuto ripensarlo”.

Sì, la storia dello smartworking, un modello che – si è scritto – sarebbe sopravvissuto anche una volta usciti dalla pandemia. Così non è stato, come per mille altre cose. O almeno: è stato solo parzialmente. Non ci dica che avrebbe preferito un mondo in cui non si va più al lavoro in treno o in bus, restando al chiuso delle proprie abitazioni?
“Vede, se si chiede a un pendolare di scegliere tra l’ipotesi di lavorare a casa e quella di farlo in un luogo di lavoro altro, non avrà dubbi: preferisce non pendolare. Ma va anche detto che la routine ha per tutti qualcosa di rassicurante e l’ho in fondo sperimentato quando, da direttore di un dipartimento universitario, ho proposto al personale amministrativo orari flessibili e hanno rifiutato tutti, chissà perché. Quanto al post-pandemia, ero convinto che tutto tornasse come prima, soprattutto perché non è stata la prima catastrofe affrontata dall’umanità e non siamo certo cambiati molto, dopo quelle precedenti”.

Il suo libro è un microcosmo di voci e aneddoti: deve aver ascoltato tanto, nei suoi viaggi quotidiani, resistendo alla tentazione di isolarsi, che è oggi sempre più diffusa, complice la tecnologia, i podcast, gli smartphone. Le è costato qualcosa, questa sua propensione a un (sano) voyeurismo?
“Diciamo che spesso avrei fatto volentieri a meno di ascoltare, ma non è nella mia indole, come non lo è isolarmi con auricolari da quanto lo circonda, come fanno in tanti che cercano in tutti i modi di chiudere fuori il mondo, inclusi i loro simili. Se la quantità di insulsaggini sia aumentata o diminuita nei quarant’anni di vita oscillatoria del testimone resta una domanda aperta: non ci sono statistiche attendibili sull’argomento. Quel che invece è fuor di dubbio è che, più o meno dal nuovo millennio in poi, è aumentato il volume a cui vengono pronunciate”.
Il volume, interessante. E perché gridiamo di più?
“Beh, la spiegazione si chiama cellulare. Oltre a essere il migliore amico dei chiacchieroni, il cellulare sembra dotato di un tasto apposito per le insipienze e le banalità; lo stesso tasto, per la precisione, che serve a ridestarlo dal letargo del risparmio energetico. Un vantaggio comunque ce l’ha: si può parlare ad alta voce da soli senza essere presi per pazzi”.

Björn, qualche settimana fa ho scattato una fotografia paradigmatica: un aliscafo viaggia nel golfo di Napoli, dai finestrini si intravede il castello aragonese, circondato da una luce fascinosa, tutt’intorno il mare. Il soggetto però sono i viaggiatori, tutti fatalmente chini sui loro smartphone. Ci stiamo perdendo qualcosa, non trova?
“Assolutamente sì, e se c’è un messaggio insito nel mio libro è proprio questo: non smettere di aprire gli occhi, guardarsi intorno, aprirsi agli altri viaggiatori. Io sono un pendolare socievole. Lo smartphone ha cambiato molte cose in peggio: è è pieno di viaggiatori solitari, che si chiudono in sé stessi, e dei quali io stesso fatico a interpretare le personalità, cosa che prima mi era senz’altro più semplice, anche semplicemente attraverso il titolo del libro o del giornale che sfogliavano. Oggi no, gli smartphone sono strumenti che aiutano a chiudersi a riccio, non lasciando trasparire nulla di noi stessi, e limitando fatalmente le opportunità di incontro”.

Se permette c’è un altro tema: abbiamo smesso, ormai da tempo, di concederci il lusso della noia, che attraversava i nostri viaggi, brevi o lunghi che fossero. Oggi anche il tragitto per andare a lavoro quotidianamente va in qualche modo riempito di contenuti, anche superficiali – penso alle stories su Instagram o TikTok – quando non addirittura ottimizzato da un punto di vista lavorativo, schiavi come siamo delle performance. Come se ne esce, secondo lei?
“Rallentando. Riscoprendo l’opportunità concessa dalla disconnessione o da un ritardo, resistendo all’esigenza di produttività che ci impone una società che va di fretta. Sono rimasto intrigato, nei miei percorsi in nave in Svezia, da un gruppo di anziani che si imbarcava tutti i giorni, giocando a carte: facevano viaggi di andata e ritorno, senza mai scendere a terra. A volte, nei miei viaggi, improvviso: per esempio fermandomi una notte in albergo, anziché rientrando a casa. Lo considero un dono”.
Perché non considera vero pendolarismo quello di chi si muove in auto?
“Perché si rinuncia alla socialità di un mezzo pubblico, rinchiudendosi in una scatola di latta. E io indago soprattutto i risvolti sociali del pendolarismo”.
Björn, come e quando abbiamo iniziato a essere pendolari? Se lo è chiesto? Bisogna andare indietro nei millenni o c’è qualcosa, connesso alla rivoluzione industriale e all’espansione delle nostre città, alla creazione dei sobborghi, alla divisione tra centro e periferie, che ha creato una nuova categoria, così consistente e socialmente rilevante?
“Me lo sono chiesto spesso. Ci sono due variabili importanti: uno è la parità dei sessi, uomo e donna che lavorano vuol dire, banalmente, che la famiglia non trasloca dove lavora l’uno ma resta tendenzialmente nel luogo di residenza, che spesso è un luogo terzo, dove magari la qualità della vita è migliore”.
Presente. E poi, che altro?
“C’è una variabile non marginale legata ai tempi di percorrenza. In Svezia la linea di demarcazione tra chi considero pendolare e chi non è data dalla percorribilità del tragitto in bicicletta, o meno. In Italia, al Sud soprattutto, le cose si complicano. Ma ci sono piccole rivoluzioni silenziose, come l’alta velocità dei treni, che hanno creato nuove categorie di pendolari un tempo impensabili, come chi da Napoli si sposta a Roma, o chi da Torino si sposta a Milano. E poi c’è chi la prende con serafica filosofia: non posso per esempio biasimare chi, come un caro amico medico, ha optato per una soluzione ibrida: vive su un’isola e lavora sulla terraferma, dove ha acquistato un piccolo piet-a-terre per le emergenze, o semplicemente per evitare stress supplementare nei periodi di maltempo”.
Questa intervista e tanti altri contenuti sono sul numero 7 di GrandTour.
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