Quando il vulcano incontrò la peste: ecco come è nata la pandemia più letale d’Europa
Un team di ricercatori ha ricostruito la sequenza di eventi che, dal freddo improvviso alle rotte commerciali del grano, potrebbe aver portato l'epidemia in Europa nel 1347. Scoprendo che...
Pochi eventi hanno cambiato la storia dell’Europa quanto la Peste Nera. In appena sei anni, tra il 1347 e il 1353, l’epidemia cancellò fino a metà degli abitanti del continente e ridisegnò l’economia, la società e perfino il paesaggio urbano. Tutto iniziò in alcuni porti italiani, e si diffuse a una velocità impressionante.
Per secoli storici e scienziati hanno cercato di comprendere che cosa avesse innescato quel disastro demografico, sociale ed economico.
Si sapeva che il batterio responsabile, Yersinia pestis, proveniva dall’Asia centrale e si diffuse attraverso traffici commerciali e pulci trasportate da roditori. Ma restava un punto oscuro: perché la peste arrivò in Europa proprio nel 1347 e non prima o dopo? Ora, una nuova serie di studi pubblicati da ricercatori dell’Università di Cambridge e del Leibniz Institute for the History and Culture of Eastern Europe propone una risposta sorprendente: tutto iniziò con un vulcano.
L’indizio era negli alberi
La ricerca parte da un segnale inatteso: gli anelli degli alberi. Ogni anno, gli alberi formano uno strato di crescita nuovo. La larghezza, la densità e la composizione chimica di questi anelli rivelano quanto le condizioni climatiche siano state favorevoli o difficili. Negli anelli degli alberi dei Pirenei spagnoli, i ricercatori hanno individuato una sequenza anomala: estati fredde e umide nel 1345, 1346 e 1347.

Un anno anomalo non è insolito. Tre anni consecutivi sì. La scoperta è stata confermata da altre otto cronologie provenienti da varie regioni europee, delineando il più intenso raffreddamento estivo in quasi un secolo.
Il fenomeno coincideva con un picco di zolfo intrappolato nei ghiacci di Groenlandia e Antartide, un segnale chiaro: ceneri e gas vulcanici avevano schermato la luce solare. Non è ancora chiaro dove avvenne l’eruzione, o se si trattò di un cluster, ma le conseguenze furono immediate. «Le temperature non furono estremamente basse, ma furono fredde, e per due anni di fila. È il risultato probabile di una serie di eruzioni ricche di zolfo», spiega il dendrocronologo Ulf Büntgen. Questo calo climatico ebbe un effetto devastante sulle colture.
Carestia, panico e navi cariche di grano (e di peste)
Fra il 1345 e il 1347, i raccolti mediterranei collassarono. I prezzi del grano salirono ai livelli più alti degli ultimi 80 anni e, nelle cronache dell’epoca, si percepiscono segnali di tensione politica e sociale nelle grandi città italiane.
Le città-stato come Venezia, Genova e Pisa non erano impreparate a gestire emergenze del genere. Per più di un secolo avevano sviluppato complesse reti commerciali a lunga distanza per garantire riserve di grano. I governi locali consideravano l’acquisto di frumento una spesa essenziale, più rilevante di qualsiasi voce non militare. Queste rotte raggiungevano due aree chiave: Mediterraneo e Mar Nero. Ma a partire dal 1343, Venezia e Genova si trovarono coinvolte in una guerra con l’Impero Mongolo per il controllo dei porti del Mar Nero. Il commercio con la regione si interruppe. Le città italiane si rivolsero a Sicilia, Spagna e Nord Africa. Poi, due anni dopo, arrivò il gelo. Il freddo indotto dal vulcano devastò l’agricoltura mediterranea e costrinse le città italiane a riaprire in fretta le rotte verso il Mar Nero. «Nel 1347 furono costretti a fare pace con i Mongoli perché sentivano la pressione dell’esaurimento delle scorte alimentari», osserva lo storico Martin Bauch. Le galee italiane tornarono a solcare il mare, cariche di grano proveniente da Crimea e Ucraina. Ma le stive trasportavano qualcosa di più.
Le pulci del disastro
Le spedizioni di grano non viaggiavano da sole. Alcuni studi genetici indicano che, già da anni, le armate mongole erano afflitte da epidemie di Yersinia pestis nella regione del Mar Nero. Quando le città italiane importarono tonnellate di frumento, importarono anche pulci infette. Si nutrivano nella polvere di grano, sopravvivevano nei porti e saltarono su ratti e uomini. La peste fu il carico nascosto di quel commercio. In poche settimane, la malattia esplose a Genova e Venezia, le città più dipendenti dalle importazioni. Da lì, si diffuse verso Pisa, Messina, e poi nell’intera penisola: dai porti ai villaggi, dai mercati alle case. Solo in seguito arrivò nelle città che producevano alimenti localmente, come Roma e Milano, che probabilmente furono colpite meno severamente. «È una ramificazione precoce della globalizzazione» afferma Büntgen. «Il commercio ne favorisce la diffusione».
Una lezione dal passato
L’inedita ipotesi della sequenza mostra come un insieme di variabili climatiche, economiche e sociali abbia generato una “tempesta perfetta”. Secondo gli studiosi, questo è un esempio precoce delle conseguenze della interdipendenza globale. «Sebbene la combinazione di fattori che contribuirono alla Peste Nera sembri rara, la probabilità che malattie zoonotiche emergano con il cambiamento climatico e si trasformino in pandemie è destinata ad aumentare in un mondo globalizzato» afferma Büntgen, «come abbiamo visto con il Covid-19». Otto secoli dopo, tracce della Peste Nera sono ancora visibili nella geografia urbana, nella memoria e nelle istituzioni europee: a Cambridge, per esempio, il Corpus Christi College fu fondato dagli abitanti proprio dopo l’epidemia, in risposta alla devastazione sociale. Gli autori della scoperta invitano a considerare lezioni storiche nelle valutazioni moderne del rischio: i legami fra clima, malattia e società non appartengono solo ai libri di storia. Sono parte della nostra contemporaneità.