Corsa ai minerali: negli abissi del Pacifico una nuova contesa tra Stati Uniti e Cina

Corsa ai minerali: negli abissi del Pacifico una nuova contesa tra Stati Uniti e Cina

La corsa ai minerali critici nelle Isole Cook apre un nuovo capitolo della competizione globale tra Washington e Pechino. Mentre gli esperti protestano contro i danni irreversibili all'ecosistema dall'estrazione

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by Giancarlo Donadio

Nelle profondità dell’oceano Pacifico, a migliaia di metri sotto la superficie, si gioca una partita geopolitica destinata a segnare il futuro dell’energia e delle tecnologie mondiali. Intorno alle Isole Cook, piccolo arcipelago tra le Hawaii e la Nuova Zelanda, Stati Uniti e Cina hanno avviato una silenziosa ma serrata competizione per l’accesso alle risorse minerarie dei fondali marini. Si tratta dei cosiddetti noduli polimetallici. Cosa sono? Ammassi rocciosi neri e irregolari che contengono metalli preziosi come cobalto, nichel e manganese, fondamentali per la transizione energetica, l’industria della difesa e l’intelligenza artificiale. 
In un contesto di domanda globale crescente e di riserve terrestri in calo, le profondità oceaniche rappresentano la nuova frontiera del potere economico e tecnologico.

Noduli polimetallici contengono metalli preziosi come cobalto, nichel e manganese

Una corsa verso il fondo del mare

Jocelyn Trainer, analista geopolitica di Terra Global Insights, in un articolo di The Guardian, spiega che, «le due superpotenze stanno gareggiando per arrivare per prime – che si tratti di sviluppare, produrre o semplicemente essere le prime fisicamente sul fondo del mare».
Gli Stati Uniti e la Cina non nascondono le proprie ambizioni. Hanno già avviato progetti di esplorazione nelle acque delle Isole Cook, che possiedono una delle più vaste aree oceaniche del Pacifico e giacimenti minerari di enorme potenziale.
Ad oggi, le Isole Cook vietano l’estrazione mineraria sottomarina, ma il governo locale sta valutando la possibilità di uno sviluppo commerciale, avviando studi tecnici e ambientali. Le autorità hanno chiarito che ogni decisione sarà subordinata a solide evidenze scientifiche.

L’offensiva americana

Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per accelerare le attività di estrazione mineraria in acque profonde, sia statunitensi che internazionali. Contestualmente, una nave da ricerca americana ha iniziato a mappare il fondale delle Isole Cook, raccogliendo dati e offrendo 250.000 dollari in assistenza tecnica al governo locale, con l’obiettivo di favorire la formazione e attrarre investimenti.
Il Dipartimento di Stato ha dichiarato di voler «promuovere la ricerca scientifica per sostenere lo sviluppo responsabile delle risorse minerarie dei fondali nel Pacifico». Un linguaggio che sottolinea la volontà di Washington di rafforzare la propria presenza strategica nella regione, anche in chiave anti-cinese.

Le mosse di Pechino

Pechino, dal canto suo, ha firmato nei mesi scorsi un accordo bilaterale con le Isole Cook per la cooperazione nella ricerca e nello sviluppo dei minerali sottomarini. L’intesa prevede la creazione di un «comitato congiunto» tra i due governi per coordinare le attività. Sebbene la Cina non abbia commentato pubblicamente l’accordo, il messaggio geopolitico è chiaro: il Pacifico è ormai un terreno di confronto diretto con gli Stati Uniti.
La Cina detiene oggi il maggior numero di licenze di esplorazione in acque internazionali e starebbe valutando anche una collaborazione con Kiribati, altra nazione del Pacifico, per ampliare la propria influenza nella regione.

Un equilibrio fragile tra sviluppo e ambiente

La corsa ai minerali critici non è però priva di oppositori. In tutto il mondo, 38 Paesi – inclusi diversi stati del Pacifico – hanno chiesto una moratoria sull’estrazione mineraria sottomarina, temendo danni irreversibili agli ecosistemi.
Il professor Douglas McCauley, esperto di scienze marine all’Università della California, avverte che «le operazioni minerarie proposte si svolgerebbero in alcuni degli ecosistemi più fragili e meno resilienti del pianeta». Le sue principali preoccupazioni riguardano l’impatto dei getti di acqua reflua che verrebbero scaricati in mare dopo l’estrazione dei minerali, con possibili effetti a catena sull’intera catena alimentare oceanica.

Il nodo del diritto internazionale

L’accordo tra Cina e Isole Cook fa esplicito riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che definisce i principi per la gestione delle risorse in acque internazionali. Pechino ha dichiarato di voler «operare nello spirito del diritto internazionale e nel rispetto della Convenzione».
Gli Stati Uniti, invece, non hanno mai ratificato la Convenzione, ma proseguono le proprie attività in mare aperto. Una contraddizione che alimenta le critiche: Trump è accusato di voler «aggirare» il diritto internazionale accelerando un processo di sfruttamento in acque globali senza sottostare ai vincoli previsti dal trattato.
Secondo McCauley, la situazione rischia di «aprire una nuova era di sfruttamento non regolamentato dei fondali marini: una pericolosa apertura del vaso di Pandora».

Le voci dal Pacifico

Sulle isole, le opinioni sono divise. Edward Herman, dell’autorità governativa Seabed Minerals Authority, sottolinea che «al momento le Isole Cook stanno collaborando con Stati Uniti e Cina solo su progetti di ricerca scientifica per comprendere meglio il proprio oceano».
Ma c’è anche chi teme che la scienza possa diventare un pretesto per giustificare interessi economici esterni. Alanna Matamaru Smith, direttrice della ONG ambientale Te Ipukarea Society, avverte: «La ricerca è ancora sviluppata dalle stesse compagnie minerarie e dipende dai dati forniti da Cina e Stati Uniti. Serve un controllo indipendente».
La sua preoccupazione è che, mentre le superpotenze si contendono il mare, le priorità del suo Paese vengano ignorate. «Sono le potenze più grandi del mondo», conclude. «E noi siamo solo le piccole Isole Cook».

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