Con l’intelligenza artificiale smetteremo di morire?
Un fotogramma di “Be Right Back”, puntata della serie distopica "Black Mirror"

Con l’intelligenza artificiale smetteremo di morire?

La domanda è provocatoria, ma crescono le App (l’ultima è 2Wai) che promettono di riportare indietro chi non c’è più, attingendo alla scia digitale che ciascuno lascia dietro di sé. Proprio come in una puntata di Black Mirror. Ma non lo trovate inquietante?

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by Pasquale Raicaldo

Smetteremo di morire, dicono i provocatori con (chiaro) riferimento al mito dell’immortalità, cui da sempre l’umanità punterebbe. Ma in gioco, stavolta, non c’è un elisir di lunga vita. Piuttosto, il fremito sottile che attraversa il nostro tempo, e la promessa, avanzata dagli immancabili algoritmi, di restituire voce e sembianze a chi non c’è più. Proprio così: all’intelligenza artificiale, in grado di scavare nelle memorie digitali che lasciamo in eredità - messaggi, immagini, tracce sparse come briciole di pane – chiederemo (lo stiamo già facendo) di ricomporre alter ego capaci di parlarci ancora, presenze fatalmente sospese tra lutto e speranza. Un territorio fragile, in cui s’incontrano – con risultati tutti da sperimentare - tecnologia e nostalgia: qui, il desiderio umano di trattenere l’intrattenibile rischia di trasformarsi in un dialogo con l’ombra.

Basta una App per ridar vita al caro estinto?

L’ultimo esperimento che aiuterebbe (il condizionale è d’obbligo) a superare il lutto arriva da una App che si chiama 2Wai: a lanciarla l’attore canadese Calum Worthy, star di Disney Channel. La promessa è quella di riportare indietro chi non c’è più. Costruendo, sintetizza l’attore, un archivio vivente dell’umanità. Basta così caricare video e audio di una persona cara e attendere: l’Ia crea un HoloAvatar, in grado di conversare, ricordare, apprendere. Una replica perfetta, o quasi, del caro estinto. Consolotario? Chissà. Il partito dei perplessi è, invero, assai consistente. E c’è anche una questione di legge, a quanto pare: secondo il membro del Garante della Privacy Agostino Ghiglia non si può “ricreare” una persona senza interrogarsi su consenso, dignità, memoria. Basta, del resto, richiamare la legge 132/2025, che punisce i deepfake ingannevoli, e il GDPR, il Regolamento generale sulla protezione dei dati dell'Unione Europea, che tutela i dati personali anche post mortem tramite eredi, fino alla legge sul diritto d’autore, protegge voce e identità anche dopo la morte. 

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Photo by Yusron El Jihan

Black Mirror l’aveva previsto?

Quel che è certo è che si sta realizzando ciò che fino a qualche anno fa sembrava assolutamente distopico. Il pensiero corre, inevitabilmente, alla serie televisiva “Black Mirror”. Nella puntata “Be Right Back” – recuperatela, se potete - Martha prova a colmare il vuoto lasciato da Ash, il suo amato compagno prematuramente scomparso in un incidente, affidandosi a un servizio capace di ricomporne prima la voce e poi il corpo attraverso la consistente scia digitale che lui, come del resto tutti noi, ha lasciato dietri di sé: un futuro distopico, lontano ma non troppo.

Un fotogramma di “Be Right Back”, puntata della serie distopica "Black Mirror"


La scelta della protagonista rivela la tensione faustiana verso la sfida alla morte e richiama le inquietudini di Mary Shelley, per cui la vita artificiale è sempre un riflesso imperfetto del desiderio umano. Le arriva così, imballato, un androide: preciso, docile, privo di contraddizioni. Identico al defunto, soprattutto. Una presenza “perfetta” che, proprio nella sua perfezione, rivela l’assenza di ciò che rende un essere umano irriproducibile. Già, perché nel misurarsi con la replica, Martha comprende che manca – evidentemente - il peso delle fragilità, dei silenzi e delle ombre che compongono la complessità della persona. La tecnologia, pur raffinata, rimane un’illusione di vicinanza: un ponte che conduce solo al limite del ricordo, ma non oltre.

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“Del resto se vogliamo davvero non accettare la morte della persona amata convincendo noi stessi ad avere una relazione continuativa con il suo sostituto artificiale, finiamo in un pantano. – spiega a GrandTour Davide Sisto, professione tanatologo, filosofo della morte (sic!!) - Lì dentro troviamo e, soprattutto, non troviamo la persona che abbiamo amato, dunque siamo al punto di partenza. Dire, come fa una nota app, che dobbiamo eliminare il lutto, oltre a essere utopico, vuol dire non comprendere le tante sfaccettature emotive e psicologiche del rapporto tra i vivi e i morti, cancellando pure l'importanza del contatto fisico.  Se, invece, ci muovessimo in un'altra direzione, allora il dialogo con il thanabot (neologismo illuminante, ndr) potrebbe attutire sensi di colpa, rimorsi, non detti.

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In fondo, dopo la morte della persona amata, l'unico vero obiettivo è riuscire a stare bene, a trovare una consolazione, a mediare armonicamente tra l'assenza fisica e la presenza simbolica. Pertanto, distinguendo il lutto con il suo dolore da uno strumento che di fatto ci fa dialogare più con noi stessi che con il morto, allora il thanabot può diventare un nuovo modo per migliorare il ricordo, per consolarci, banalmente per andare avanti. Poi, di nuovo, c'è tutto il discorso relativo alla protezione della privacy e a un prodotto commerciale che trae profitto dal lutto. Ma se stiamo solo sul terreno del rapporto tra il dolente e il thanabot, non è detto che - con il tempo e l'abitudine - il thanabot non diventi semplicemente l'aggiornamento tecnologico dell'album fotografico”.

 

Eppur si muore: c’era una volta l’elaborazione del lutto

In fin dei conti che la morte, nell’era dei social, non esista più (o quasi) lo confermano le (terribili) animazioni con l’intelligenza artificiale dei cari defunti, uno dei trend in voga su Facebook. In barba all’idea che la finitezza della vita ne sia, in fondo, intima essenza. Ha scritto Hannah Arendt, del resto, che ogni vita si comprende solo dal suo limite

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Nel suo “La morte si fa social”, per certi versi illuminante, Sisto sottolinea come “relegata lontano dalla nostra quotidianità, medicalizzata, espunta dalle nostre vite, l’esperienza del morire vive oggi una situazione paradossale, quando le immagini e le parole dei cari estinti tornano e irrompono all’improvviso dagli schermi dei nostri telefoni. Moriamo, ma continuiamo a esistere nella presenza ineliminabile della nostra passata vita online”. Verissimo. Fatale allora che social network, chat, siti web costituiscano insieme, ad oggi, il più grande cimitero del mondo: “Sono già disponibili bot con cui dialogare e capaci di interpretare i nostri stati d’animo per poi sostituirsi a noi quando saremo trapassati, e continuare a parlare con i nostri cari e il profilo Facebook che consultiamo compulsivamente più volte al giorno, quando mancheremo, diventerà una vera e propria lapide virtuale, e i nostri amici potranno continuare a farci gli auguri ogni anno nell’aldilà”, aggiunge. 
Come a dire: all’elaborazione del lutto stiamo progressivamente sostituendo l’illusoria convinzione che basterà ricorrere a un feticcio, quasi che alla tecnologia si possa chiedere l’ultimo passo che ancora le parrebbe precluso: regalarci l’immortalità. Inquietante, non trovate?

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